Ines Fontenla.
Soglie Mobili
Natura/Cultura/Identità
Viana Conti
La guerra moderna alle paure umane,
sia essa rivolta contro i disastri di origine naturale o artificiale,
sembra avere come esito la redistribuzione sociale delle paure,
anziché la loro riduzione quantitativa.
Zygmunt Bauman
Premessa
Soglie della mente e del corpo, della psiche e dell’identità, confini della terra e dell’aria, dei monti e dei mari, del gelo artico e della calura tropicale, dei continenti e delle isole, dei Paesi e delle Comunità umane, sono diventati mobili, slittanti come faglie tettoniche, sono entrati nella dimensione fluida dello sconfinamento, del mutamento, dell’ibridazione, talvolta anche della sparizione. I Popoli tutti partecipano della condizione inquieta ed inquietante del transito. La visione teorica del filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman vede, nel passaggio dalla Modernità solida alla Postmodernità liquida, il dilagare di un’insicurezza, di un’instabilità, dei valori fondanti la coscienza, l’umanità, la consapevolezza, il senso di appartenenza, il diritto alla libertà, al dissenso, alla pace.
La Mostra
L’artista argentina, di segno concettuale, nomade di vocazione, Inés Fontenla, nata a Buenos Aires, residente a Roma, attiva internazionalmente, presenta in mostra una selezione antologica di opere rappresentative di cicli appartenenti a periodi diversi. Installazioni site specific, light-box, bassorilievi, fotografie, serigrafie su legno e perspex, video, still da video, rappresentazioni remote di cartografie del continente europeo, mappe e planisferi della terra, ricostruiscono, esteticamente e metaforicamente, ambienti, paesaggi, utopie, archeologie, realtà in mutamento. Un ideale viaggio Verso Itaca viene ostacolato e frenato dalle urgenze del quotidiano, i templi della Classicità greca e romana, costruiti come mito di Armonia e Bellezza, rovinano su se stessi Alla Fine delle Utopie, distrutti dalla violenza del Potere. Ora sono i valori emozionali che colmano le valigie di un migrante, ora sono quelli razionali connessi alla concretezza dell’esistenza (Valigia del raziocinio, stampa fotografica, carta, polvere di marmo). Riflettono il Cielo alla Fine del Mondo gli insediamenti urbani della Tierra del Fuego, ricostruiti con piccole case, di tipologia locale, dai rassicuranti colori pastello: li sovrasta una pioggia di raggi ultravioletti, filtrata dal buco dell’ozono, rappresentata in forma di affilati coltelli sospesi nell’atmosfera. L’assottigliarsi dello strato di ozono, che ha funzione di filtro dei raggi solari, è causa, infatti, di danni irreversibili sull’intero ecosistema e sulla salute dell’uomo. Le nubi di gas e veleni inquinanti che vorticano sul Polo Sud, provengono da un altrove, da lontani Paesi del benessere, passati da uno stadio rurale ad una sconsiderata industrializzazione. Secondo la teoria del caos, ricorda l’artista, piccole varianti delle condizioni climatiche iniziali produrrebbero nel sistema aumenti abnormi del fenomeno. Davanti allo scenario delle opere, infatti, riecheggia, virtualmente, in sala, la celebre domanda di Edward Lorenz: può, il batter d’ali di una farfalla in Brasile, provocare un tornado in Texas? L’esteso biancore del plateau ghiacciato del Polo Sud costituisce la sorgente del gelo che regola l’intera condizione termodinamica del Pianeta Terra, creando, tramite il riflesso niveo della Calotta, il cosiddetto Effetto Albedo. Nel light box Albedo 1 i grandi iceberg dell’Antartide si staccano dalla piattaforma glaciale per galleggiare alla deriva, squagliandosi inarrestabilmente. In Albedo 2 quattro ignari pinguini, osservando sconsolati i ghiacciai che si ritirano, il livello dei mari che aumenta a causa del riscaldamento globale, assistono increduli ai disastri dell’Homo sapiens! Il termine Albedo, che deriva dal latino albus/bianco, contrapposto a Nigredo, è anche la fase successiva dell’itinerario alchemico. In campo estetico, questo termine diventa parte del processo attraverso cui l’oscura materia grezza si trasforma nello splendore dell’opera d’arte. La complessità della ricerca di Inés Fontenla richiama, appunto, l’uso di chiavi di lettura alchemiche, mitopoietiche, metaforiche, letterarie, cosmogoniche, cromatiche, musicali, archetipiche. Nell’installazione Il Giardino dei sentieri che si biforcano, titolo ripreso da un racconto dello scrittore e poeta argentino Jorge Luis Borges, Inés Fontenla ipotizza uno slittamento progressivo di futuri possibili, costruendo, su strisce di manto erboso verde, un metafisico labirinto temporale, su cui quattro pendoli di metallo oscillano ritmicamente, mentre parole di luce indicano il percorso in cui Scienza-Natura-Spazio-Uomo interagiscono. Si intitola provocatoriamente Pace un emisfero ligneo della Terra, spezzato in due, i cui continenti, paradossalmente, come nelle guerre di trincea, sono tenuti insieme da un minaccioso, tagliente, filo spinato. Due planisferi bidimensionali, tratti da un video, rappresentano la dissociazione in atto della compagine dei continenti, mentre un fondo sonoro accompagna il Requiem Terrae.
L’Opera e l’Artista
L’Utopia, tema incisivamente presente nel lavoro dell’artista argentina Inés Fontenla – scrive Eduardo Galeano, saggista, giornalista scrittore uruguaiano, autorevole figura della letteratura latinoamericana – Essa è all’orizzonte. Dice Fernando Birri. Mi avvicino due passi, si allontana due passi. Cammino dieci passi e l’orizzonte scivola dieci passi più in là. Per quanto cammini non la raggiungerò mai. A che serve l’utopia? A questo serve: a camminare.
L’origine e la formazione di Inés Fontenla avviene a Buenos Aires, porto del sentire latino-americano che non ha cessato di aprire spazi sconfinati alla cultura della frammentarietà del fantastico in poesia, letteratura, arte, che ha coniugato passione struggente e nostalgica malinconia nei tempi ritmati della milonga e sincopati del tango, dal mitico Gardel all’inarrivabile Piazzolla. Questa cultura non accade senza conseguenze in un’artista il cui asse emotivo e inventivo, per di più, corre da Buenos Aires, metropoli in cui è nata, a Roma, la Città Eterna in cui vive. Come Jorge Luis Borges, per La biblioteca di Babele, chiude il libro di sabbia…un volume di innumerevoli fogli, sperando che… i suoi sogni continuino a ramificarsi nell’ospitale immaginazione dei lettori, così Inés Fontenla fa precipitare le colonne, i templi e gli archi delle sue micro-monumentali Città ideali su un’isola circolare di cristallina polvere di marmo, per poi farli risorgere sotto la spinta di nuove utopie mitiche e quotidiane. Al blu oltremare, che da sempre è la dominante cromatica delle sue atmosfere, rinvianti a partenze e ritorni, alla luce azzurrina dei ricordi, viene qui sostituita la glacialità nivea e silente del bianco, che ben si addice a una prospettiva della distanza in cui sono calati gli Archetipi dell’Utopia, da Atlantide di Platone (secolo III-II a. C.), Sforzinda di Filarete (secolo XV), Utopia di Tommaso Moro, La città del sole di Tommaso Campanella (secolo XVI), Falansterio di Charles Fourier (secolo XVIII) a Icaria di Etienne Cabet (fine secolo XIX). Fatalmente attratta dalla dimensione cartografica della conoscenza, delle mutazioni geologiche, ricercatrice di mappe e carte nautiche, ricostruttrice dei percorsi dell’immaginario e dell’inconscio collettivo, del desiderio, Inès Fontenla condensa in una visione apollinea, in sintonia con quella dei francesi Ann & Patrick Poirier, passato, presente e futuro di sogni, incubi e derive dell’umanità. Benché improntate a un’intensa evocatività, le sue opere non raccontano, ma indicano la scena, non esaltano, ma usano la tecnologia anche digitale, esplorano dall’interno i nessi delle strutture linguistiche che praticano, ricorrono alla materia (polvere di marmo, terre colorate, lamina di piombo, perspex, forex, legno) per costruire tempi e spazi immateriali di percezione e di lettura (videoproiezioni, ambienti sonori, illuminotecnica, rimandi metaforici, segnici, formali, apparizione estatica, ripetitività ipnotica). Il frequente ricorso alle sovrapposizioni del virtuale al reale, delle figure d’ombra a figure di luce, esprime nelle opere di Inés Fontenla la precarietà delle grandi imprese del pensiero, la mutevolezza delle condizioni ecologiche, le inarrestabili mutazioni delle eredità genetiche, l’instabilità dei terreni delle certezze, in una visione del mondo e della cultura contemporanee.
Le sensibili riflessioni etiche, le vaste griglie di ricerca storica e cosmologica di questa artista argentina trovano, nel suo immaginario, un altamente significativa rappresentazione estetica. La sua opera non cessa di costruire luoghi della mente, della memoria, presenti nella letteratura – Borges, Yourcenar nella mitologia, nella musica, nell’immaginario collettivo, come Atlantide, la Pangea, il Labirinto. Per questi suoi non-luoghi ha ideato un colore, sempre lo stesso, quel blu oltremare che rinvia anche alla sua provenienza, ha ideato una musica. Non c’è storia nel suo lavoro, non c’è narrazione, ma apparizione e sparizione di figure, ombre, oggetti, addensamenti di pensiero consegnati all’immaginazione, situazioni sospese fra tempi e spazi indeterminati, effetti di dialogo, di vertigine, di mutazione. Nelle sue installazioni eventi musicali di tensione e distensione accompagnano le mutazioni magico-alchemiche di foreste di colonne, cosparse di pigmenti blu oltremare come i monocromi di Yves Klein, sonore come canne d’organo, inconsistenti come la nebbia d’autunno.