“La finestra sull’utopia”
Essa è all’orizzonte. Dice Fernando Birri. Mi avvicino due passi,si allontana due passi. Cammino dieci passi e l’orizzonte scivola dieci passi più in là. Per quanto cammini non la raggiungerò mai. A che serve l’utopia? A questo serve a camminare.
Eduardo Galeano
È da tempo che Inés Fontenla riflette, con la sua opera, su continenti che non esistono più, su città ideali, su terre lontane e poco conosciute. Le sue opere propongono una presa di coscienza dei modi di raffigurare lo spazio che abitiamo, parlano della natura dell’immagine, questionano la rappresentazione della realtà. In questa installazione, che presenta nello spazio dell’Università di Roma, Fontenla segnala la fragilità delle utopie. Fragilità causata, soprattutto, dal fatto che, in tutte, l’immagine dell’avvenire ricercato si contrappone allo stato presente come suo contrario, senza che si tenti di mostrare come potrebbe realizzarsi il passaggio dall’uno all’altro.
Si può raggiungere una società perfetta in un mondo imperfetto? Fontenla pensa che le utopie possano disfarsi come i pensieri. Nel rappresentare ciascuna delle sue proposte utopiche come rovine o costruzioni di sabbia, provoca una disturbante inquietudine nello spettatore.
“Tutte le utopie presentano tratti comuni: offrono l’immagini dettagliata di una società completa, racchiusa in se stessa (da qui la preferenza geografica per isole o pianeti o la loro proiezione in un remoto futuro) e celano un’attitudine critica nei confronti della società reale”(1). Ciò spiega perché, nel concepirle, molti abbiano guardato all’altro lato dell’Atlantico per dare inizio al nuovo. Gli architetti rinascimentali invece, si ispiravano alle teorie classiche della proporzione e alla planimetria urban classica per disegnare le città ideali in Europa(2). Pensiamo ad esempio come la Pienza che Bernardino Rossellino costruisce sull’originale Cosignano, in memoria di Papa Pio II; la Sforzinda, che Filerete (Antonio Averulino) progetta nel 1490 per Ludovico Sforza, una città pensata a forma di stella tracciata dagli alti muri fortificati e con una torre centrale che permetteva di vedere i nemici “di fuori” e “di dentro” (esterni e interni o il formidabile monaggono di Palmanova. La città stellata la cui costruzione fu avviata nel 1593 nel luogo scelto dagli Ispettori Generali della Città di Venezia (3); l’incrocio di Giulia Augusta e la Via Ungeresca, secondo il piano di un gruppo di ingegneri, teorici ed esperti in architettura militare che lavoravano nell’Uficio di fortificazioni di Venezia su commissione di Giulio Savognan.
Sopra un cerchio bianco, un’isola creata al centro della sala, Fontenla riunisse i modelli degli edifici-utopia. Sta parlando della materializzazioni di un centenario vincolo concettuale, quello dell’isola con l’utopia (4). Isola, geografia appropriata, territorio separato nel quale si sentiamo protetti, spazio incontaminato, grande vuoto, rifugio, pura possibilità; infine, il luogo ideale dove edificare l’utopia. Un modello che oscilla fra politico e il religioso, al quale possano compararsi le società esistenti per misurare il bene e il male che queste contengono.
Un’isola che, come nella doppia valenza della radice greca del nome utopia, significa “buon luogo” e anche “non luogo”. Parola che nomina ciò che non è in nessun luogo, come afferma R. Bersthelot, non soltanto ciò che non è stato realizzato in nessun luogo, ma anche ciò che non potrebbe esserlo o per lo meno non potrebbe esserlo interamente. L’utopia non sta in alcun luogo, è progetto futuro possibile, sogno di una società armonica e felice, insomma, perfetta.
Sul cerchio bianco i monumenti bianchi che rovinano al suolo, come gli edifici raffigurati nella mirabile Sala dei giganti del Palazzo del TE di Giulio Romano, da cui sono schiacciati i giganti che vogliano raggiungere l’Olimpo. Colonne spaccate che non sorreggono più le cupole ed i frontoni che le coronavano.
Nel video che fa parte della mostra l’artista ci parla della persistenza delle utopie attraverso il tempo. In uno spazio bianco, mani bianche, su fondo bianco (infinito, atemporale come il fondo oro nei mosaici bizantini) cercano di ricostruire, infruttuosamente, le architetture.
Sebbene il termine utopia non possa essere applicato a società ideali anteriori alla sua invenzione da parte di Tommaso Moro, l’immaginazione utopica sembra essere immanente all’uomo: cosciente di questo Fontenla prende, nel concepire la propria opera, diversi esempi paradigmatici della storia della cultura. Cosi come per altre opere indaga la scienza cartografica ed i trattati geologici che ci parlano di cambiamenti, fratture, cataclismi, qui l’artista segue pazientemente le utopie nel corso dei secoli: Atlantide, sprofondata nel mare e invisibile, e La Repubblica di Platone(5), che ispireranno l’Utopia di Tommaso Moro il quale, nel De optima reipublicae statu, de que nuova insula Utopia (1516) descrive un paese immaginario, situato nelle Americhe, dove vive un popolo perfettamente saggio, potente e felice, dove nessuno aspira a nulla, poiché tutti possiedono tutto il necessario in abbondanza, grazie alle istituzioni ideali di cui godono; La città del sole di Tommaso Campanella (1623) dove il navigatore genovese che ritorna dal giro del mondo e ha visitato le terre di Troiana (disegnata nelle carte medievali ad occidente dell’Europa, nel mezzo del mare dove poi sarebbe stata ubicata l’America), racconta che l’isola e governata dal capo supremo Sol, assistito da Pon, Sin e Mor, tre principi i cui nomi significano Potere, Sapienza, Amore; la Salento descritta nel Télémaque di Fenelon, il falansterio ideato da Charles Fouriere o la città immaginaria dove si vive comunitariamente in armonia descritta da Etienne Cabet in Voyage en Icarie (1880). In tutte queste opere si percepisce la persistenza del modello utopico nel tempo.
In ultima istanza, l’intenzione didattica di queste opere non è altra che mostrare un modello di società che funzioni come l’idea platonica, come un dover essere che orienti la società reale. E che succede in Brasile quando un gruppo di francesi attraversa l’Atlantico, per materializzare l’utopia fourierista fondando, agli inizi della decennio del 1840, due colonie falansteriane (Sai e Palmital) (6), di fronte all’isola di San Francisco, all’estremo nordovest dello stato di Santa Caterina.
“Che fare adeso, dopo i dissolversi dell’utopia, al termine dell’orgia edonista degli anni 80, in un mondo senza dei, senza significati forti, senza un centro di riferimento, abitato – soprattutto – da immagine e, più specificamente de immagini tecnologiche?”(7)
La nostra artista decide di utilizzare l’arte come una forma o una prospettiva particolare nell’ambito della conoscenza, e nel commentare, con la sua opera, tanti sogni di perfezione e progetti di vita felice ci sta dicendo, come Eduardo Galeano, che ciò che importa in conclusione è.imparare a camminare.
Irma Arestizabal
Per mio figlio Antonio
NOTE
1. Graziela Scheines, Las Metaforas del fracaso, Buenos Aires, Ed. Sudamericana
2. Per Vitruvio una città disegnata seguendo le proporzione del corpo avrebbe rispechiato la bellezza umana e la bellezza dell’agricoltura avrebbe generato virtù nei cittadini.
3. Nel contesto territorio del Friuli- Venezia Giulia.
4. Sul tema vedere: May Lorenzo Alcallà, Islario,, Buenos Aires, Ed. Sudamericana.
5. Conclude Platone, Republica, IX,591 b. “di questa nostra città esemplare sta forse nel cielo, e non è molto importante che esista di fatto in qualche luogo o che mai debba esistere; a quell’esemplare deve mirare chiunque voglia in primo luogo fondarla entro di sé”
6. Come ben segnala May Lorenzo Alcalà (op.cit.) il Brasile e gli Stati Uniti sano i paesi dell’America che concentrano la maggiore quantità di esperimenti utopici. Negli Stati Uniti avallati dalle caratteristiche utopiche della colonizzazione protestante mentre in Brasile trovano sostegno nell’attrazione esercitata dall’esotismo della geografia brasiliana.
Benoit Mure, il “governatore” dei fourieristi, sceglie terre di difficile acceso. Effettivamente, la Penisola di Saby, si trova nel continente ed l’ingresso ed essa è tanto difficile che bisogna andare all’isola e attraversare il mare per conquistarla.
7. Cecilia Casorati, Terra inquieta, Roma 1997