Attraversando mappe” è dedicato agli ultimi quindici anni di lavoro di Inés Fontenla, artista argentina, naturalizzata italiana; non è costruito con un criterio cronologico, ma attraverso le aree tematiche che troviamo al interno del suo lavoro: quella dell’utopia e dei territori immaginari, quella delle migrazione de dei conflitti sociale e quella legata all’ambiente e alla natura. Ci troviamo di fronte a una personalità complessa, a un lavoro che non offre risposte, certezze, apre, piuttosto, quesiti, che sottendono un’inquietudine profonda. Il lavori di Inés Fontenla presentano tutti un più o meno evidente rimando autobiografico. Tengono conto della sua condizione di “migrante” dal America Latina. Dove la sua famiglia in un lontano passato era giunta dall’Europa, in cui lei da adulta è tornata a vivere. Il suo rapporto con la terra d’origine, tuttavia, è profondo. A Buenos Aires, trascorre ancora molto tempo de vita e di lavoro. Fontenla si pone alla ricerca del senso delle cose, di quello che la circonda, dei macrofenomeni, ma anche delle microrealtà del quotidiano. Nella sua ricerca si avverte una dicotomia continua, in cui i dubbi sono sicuramente più delle certezze.

 

 

 

 

Geografie dell’anima di Angela Madesani

Il volume che andiamo qui a introdurre è dedicato agli ultimi quindici anni di lavoro di Ines Fontenla, artista argentina, naturalizzata italiana. Il volume non è costruito con un criterio cronologico, ma attraverso le aree tematiche che troviamo all’interno del suo lavoro: quella dell’utopia e dei territori immaginari, quella delle migrazioni e dei conflitti sociali e quella legata all’ambiente e alla natura. Ci troviamo con lei di fronte a una personalità complessa, bisognosa di lunghi tempi di riflessione e di gestazione. Attraverso il suo lavoro non offre risposte, certezze, apre, piuttosto, quesiti, che sottendono un’inquietudine profonda. Il suo atteggiamento esistenziale e artistico è antidogmatico, intrinsecamente dubbioso. La scelta di lavorare proprio sui temi che abbiamo appena accennato è strettamente collegata a tutto questo, in stretta relazione con la nostra complessa contemporaneità.

I lavori di Ines Fontenla presentano tutti un più o meno evidente rimando autobiografico. Tengono conto della sua condizione di “migrante” dall’America Latina, dove la sua famiglia in un lontano passato era giunta dall’Europa, in cui lei da adulta è tornata a vivere. Il suo rapporto con la terra d’origine, tuttavia, è profondo. A Buenos Aires, trascorre ancora molto tempo di vita e di lavoro.

Fontenla si pone alla ricerca del senso delle cose, di quello che la circonda, dei macrofenomeni, ma anche delle microrealtà del quotidiano. Nella sua ricerca si avverte una dicotomia continua, in cui i dubbi sono sicuramente più delle certezze.

Come nascono i tuoi lavori?

Attraverso il mio lavoro cerco di interpretare la realtà, di abbracciarla in toto. Ed è proprio in questo processo di comprensione che nasce l’immagine.

In molti casi nascono dalla lettura di un articolo, che mi ha colpita. Basta una frase significativa per fare scaturire dentro di me una sorta di inquietudine riflessiva, che mi stimola a fare ricerca per riuscire a dare un senso a quanto sto facendo. Una ricerca che non è solo di matrice artistica, anzi. Il più delle volte è un cammino di conoscenza, che abbraccia vari ambiti.

Iniziamo a entrare nel vivo del tuo lavoro. A parlare del tema dell’utopia, così presente nel corso del tempo. Partiamo da Alla fine delle Utopie, la grande installazione che hai realizzato al Museo Laboratorio dell’Università de La Sapienza di Roma, la città dove vivi, quando sei in Italia.

In quell’opera del 2002 volevo rappresentare diverse utopie nel corso del tempo e precisamente Atlantide di Platone, Sforzinda di Filarete, L’Utopia di Thomas More, La città del sole di Tommaso Campanella, il Falansterio di Charles Fourier, Icaria di Étienne Cabet. Ognuna di esse era in una condizione di gestazione. In costruzione o in distruzione? Non è dato saperlo. In un video si vedevano delle mani che lavoravano con i pezzi di architettura. C’è una voluta ambiguità di fondo, che permette una lettura aperta.

È una sorta di ossessione, in cui non si può distinguere il momento iniziale da quello finale. Sei arrivata al concetto di utopia partendo dalla letteratura a quanto capisco.

Per un lavoro che ho realizzato su committenza in una casa privata ho lavorato partendo dalle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. Ho tentato di restituire un’immagine a quanto racconta la scrittrice belga.

È un tentativo preciso di dare una forma alle parole, ai pensieri…

Produrre immagini è per me qualcosa di molto naturale. Posso affermare che penso per immagini. Quando leggo o ascolto qualcosa che mi colpisce, immediatamente il mio pensiero lo visualizza. Naturalmente in seguito sento il bisogno di approfondire, di arricchire, come ho già detto, attraverso la ricerca.

Mi pare che l’architettura svolga un ruolo importante all’interno del tuo lavoro. Vi è spesso il concetto di costruzione legato a quello di decostruzione. Ma anche il disegno, il progetto in una lettura aperta in cui ognuno può trovare un senso diverso.

Spesso nei tuoi lavori compaiono dei templi, momento primigenio dell’architettura. Trovo molto affascinante Progetto del 2004 in cui il disegno progettuale è affiancato da una sorta di crollo. Come anche in Passato e futuro del 2004.

Il tempio è come una costruzione mentale. Nell’architettura è presente la metafora del costruire che è per me fondamentale. Costruzione che prevede anche l’idea di distruzione altrettanto importante, entrambe legate profondamente al concetto di tempo. Sono sempre stata attratta dalle costruzioni che crollano, dalle macerie. Più volte mi sono interrogata su questa mia attrazione. Penso che nel mio inconscio più profondo si possa trovare una risposta. Già da adolescente ho percepito profondo il senso della caduta, che ho cercato di esorcizzare attraverso il mio lavoro di artista.

A proposito di macerie vogliamo parlare di un tuo lavoro molto intenso, realizzato nel 2009, in occasione del ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, da cui prende il titolo.

Qui la scritta luminosa con il nome della città è divisa in due parti diverse fra loro, una è appesa al muro, l’altra è crollata nelle macerie poste sotto l’opera. anche qui lascio lo spettatore libero di pensare quello che vuole.

Tornando un passo indietro parlaci di Atlantide, il lavoro che hai realizzato nella galleria di Pino Casagrande, a Roma, nel 1999.

Dopo aver lavorato sui testi letterari sono passata a Platone, che di Atlantide (1) ha fornito diverse interpretazioni. Io ero comunque interessata al concetto di città, di società ideale di matrice utopica.

Platone riflette sull’Atene corrotta del tempo in cui gli è dato vivere come già ne La Repubblica e in tal senso parla di Atlantide. Ma non è questo il luogo per parlare di filosofia, né tantomeno io ne sono all’altezza. Tuttavia mi pare di potere riscontrare un interessante parallelismo con il nostro tempo.

Anche io trovo che sia riscontrabile un interessante parallelismo. Sono affascinata dall’attualità di questo pensiero. Attraverso Atlantide ho potuto lavorare su una dicotomia che tanto mi affascina, quella fra reale e virtuale.

Ci muoviamo in un mondo in cui il limite fra l’uno e l’altro è estremamente labile. In fondo Atlantide è solo il prodotto di un raffinato pensiero. Per rappresentarla ho fatto un’installazione di sabbia che si può distruggere da un momento all’altro. All’interno della galleria dietro la grande installazione era possibile vedere un colonnato. Una grande immagine fotografica sulla quale erano poste due colonne vere. Anche qui il reale e la sua rappresentazione. Su una colonna era la mappa di Atlantide come la rappresentava Platone e sull’altra un testo sulla Casa di Salomone del filosofo inglese Francis Bacon, tratto dalla sua opera incompiuta La nuova Atlantide del 1612. La popolazione della casa «Conosce molte cose delle nazioni del mondo ma nessuno conosce loro» (2). Mi interessa il concetto di arricchimento personale attraverso il viaggio.

Anche qui la dimensione autobiografica.

Spesso utilizzi per i tuoi lavori la forma installativa attraverso media profondamente diversi tra loro.

L’installazione permette allo spettatore di immergersi totalmente nell’opera, un aspetto che mi interessa particolarmente. Mi piace che il mio lavoro possa essere vissuto dall’interno e non percepito come un’imposizione. Vorrei sempre dar vita a delle opere che non possano essere contenute, ma che riescano a contenere.

Ancora per una casa privata hai realizzato anche Isola dell’Utopia da Thomas More, in cui riporti mappe, testi. Un modo di lavorare che hai fatto tuo nel corso degli anni.

Qui c’è anche il concetto di metafora, che mi appartiene, come quello di mito, del resto. Ambedue ci immettono in una dimensione profonda, quella dell’inconscio. Ci aiutano a leggere i messaggi che ci vengono forniti. Sono come una sorta di filo di Arianna. Le metafore propongono una lettura che va al di là del visibile, trascendono l’immagine. I miti, d’altronde, riescono a traghettare la mente nel territorio delle problematiche esistenziali, al di là di una dimensione strettamente temporale.

Nei tuoi lavori ci si imbatte spesso nel concetto di tempo. Si parla del presente…

Sono molto interessata a lavorare sul presente che è profondamente diverso dall’oggi. L’oggi ci rimanda a un concetto di temporalità istantanea, fuggevole. Il presente invece si proietta nel futuro con un piede nel passato. Ci fornisce una visione più ampia e più profonda dei fenomeni. Mi sono trovata a parlare più volte di tutto questo con l’intellettuale argentino, di origine italiana, Norberto Griffa, oggi purtroppo scomparso. Griffa ha fatto un’analisi lucida del mio lavoro, rintracciando due punti focali dello stesso: il mito come analisi del passato e l’utopia come proiezione verso il futuro. Forse proprio da qui nasce il mio interesse per il mito, una forma di conoscenza del passato più profondo dell’uomo.

Ti ho sentito citare la scrittrice Josephine Hart che ha affermato: «A volte ci serve una mappa del passato. Ci aiuta a capire il presente e a progettare il futuro» (3). Mi pare sia uno dei concetti chiave della psicoanalisi.

Infatti è la metafora della mappa come rappresentazione dell’uomo.

Interessante in tal senso Pace del 2003 in cui le varie parti di un mappamondo sono tenute insieme da un filo spinato.

Il mondo spezzato è tenuto insieme dalla violenza della guerra.

Il secondo gruppo di lavori che qui andiamo ad analizzare è relativo alla migrazione, agli spostamenti. Un concetto che si lega profondamente alla tua esperienza personale. Vogliamo parlare di Bagaglio di Ulisse del 2003.

Siamo ancora molto vicini al concetto di utopia con questo lavoro. Paesaggi che si creano e si distruggono a seconda delle letture possibili, immersi nella polvere di marmo, bianchissima e sottile, un materiale luminoso che riflette la luce e che, a mio parere, riesce a rappresentare perfettamente il territorio del pensiero.

Ulisse appare anche in un altro titolo, Sindrome di Ulisse del 2004

Forse è il lavoro più autobiografico che ho fatto. Qui mi dichiaro un emigrante con tutti i suoi conflitti, le sue angosce. Ogni valigia contiene dei riferimenti, in una sono dei fiori, ma è sovrastata da una serie di coltelli. Sono le illusioni romantiche della gioventù, che vengono trafitte e distrutte nel corso degli anni, in cui è anche una connotazione sessuale, metafora di qualcosa di penetrante, tagliente. Un’altra valigia contiene una casetta, accanto è un ascia, è il bisogno di rompere con il passato.

Le coppe rotte contenute in un’altra sono le illusioni infrante. Da un’altra cadono delle parole, delle frasi, sono le aspettative della vita di ognuno. Il mare in tempesta è la situazione in cui molte volte ancora mi sento. Il sentirmi a volte traboccata dalla vita, ha dato origine all’urgenza di comunicare che è alla base del mio lavoro, ne è forse il motore scatenante. Il piano delle emozioni è un altro aspetto molto intenso del mio lavoro. Credo che il produrre immagini mi abbia aiutato a sconfiggere i demoni dell’esistenza.

Al di là delle colonne d’Ercole è il lavoro che hai fatto nel 1998 al Centro Cultural Recoleta di Buenos Aires.

In quel lavoro installativo ho citato anche un testo della cultura maya, il Chilam Balam. Racconta in modo molto poetico come gli indigeni vedevano l’arrivo degli Europei. Pone in relazione i due mondi che costituiscono la mia realtà. Ho utilizzato per questo lavoro, nel suo significato filologico, il blu oltremare. Come anche in Terra incognita del 1997, realizzato, sempre nella capitale argentina, in una galleria privata. A Roma presso Spazioltre, nel 1995, ho realizzato Terra inquieta. Il pavimento era blu, come la luce. Tutto era fluttuante. Mi interessa il concetto di rappresentazione del territorio, che in fondo è un astrazione.

Possiamo parlare di Verso Itaca.

Si tratta di una nave che rimane incagliata. Talvolta in un percorso intellettuale si può rimanere intrappolati alla quotidianità, qui rappresentata dai mobili qualunque di una casa qualsiasi, che impedisce di prendere il volo.

Anche in Un fulmine a ciel sereno parli della quotidianità.

Sono fotografie di divani di un tranquillo soggiorno di una casa normale. A un certo punto un’esplosione distrugge tutto e le schegge di vetro si conficcano nei divani. A terra nell’installazione, sopra i vetri, ho posto un libro di argomento geopolitica, molto importante per la mia formazione: La vena aperta dell’America Latina di Eduardo Galeano. È una sorta di collegamento fra la dimensione del microcosmo domestico e il macrocosmo in cui viviamo, come hai avuto tu stessa occasione di affermare.

La riflessione sulla natura, sull’ambiente è un altro importante momento della tua ricerca. Vogliamo parlare de Il cielo alla fine del mondo?

È un lavoro sul buco dell’ozono. Accanto a un tranquillo villaggio di casette colorate, ho posto delle fotografie tratte da un video che ho realizzato intervistando alcuni abitanti della Tierra del Fuego. Chiedevo loro come ci si sente a vivere in questa situazione di rischio. Avevo precedentemente cercato

di capire, parlando con degli scienziati, come mai una tale tragedia ambientale era accaduta proprio in un luogo come quello, in cui c’è poca popolazione, non ci sono industrie. La mia idea era quella di mettere in luce le nostre responsabilità, del mondo cosiddetto evoluto, nei confronti del resto della terra. Non solo nel presente, ma anche nel futuro. Il buco dell’ozono è, infatti, prodotto dai gas inquinanti che rimangono nell’atmosfera per oltre

duecento anni. Per cui gli abitanti della terra del futuro pagheranno i nostri scempi.

Mi piace chiudere la nostra conversazione parlando di un’opera che hai presentato a Roma, nel 2011, nella chiesa sconsacrata di San Filippino, poi a Buenos Aires 2012 e quindi anche all’interno della mostra collettiva Nostalgia del presente (4), a Piacenza, nel 2012: Requiem terrae. È una sorta di prece per la terra che stiamo distruggendo.

È come se la terra, infatti, si stesse disfacendo. Mi piace trattarla come qualcosa di vivo e di sacro al contempo. Nella chiesa romana si percepiva forte il profumo della terra che avevo cosparso sul pavimento. La terra è fragile. Noi non la rispettiamo, pensando solo all’arricchimento momentaneo. L’uomo grande creatore è in grado di distruggere e qui si torna al discorso dal quale siamo partite.

Maria Nadotti nella prefazione a I fuochi dell’autunno (5) scrive: «Come è capitato a quasi tutte le grandi artiste-scrittici, pittrici, scultrici, musicisti, interpreti teatrali e cinematografiche-anche per Nèmirovsky la biografia è punto di accesso all’opera. Non solo perché, quando l’artista è donna, i critici tendono a ridurla alla dimensione esistenziale, ad attraversarne l’opera osservando dallo spioncino della vicenda privata. Ma perché le migliori artiste di sesso femminile non hanno mai separato l’opera dalla vita se non attraverso il formidabile atto del dare forma. Basti pensare ad alcuni nomi celebri: Artemisa Gentileschi, Virginia Wolf, Frida Kahlo, Louise Bourgeois.

Sarebbe ingenuo tuttavia confondere opera e vita. Significherebbe trascurare o sottovalutare la potenza e l’unicità del gesto artistico, leggerlo come mera traduzione. Némirovsky, che non ha mai detto di sé in forma diretta, si espone provocatoriamente attraverso una serie di doppi e di maschere, femminili e maschili. Il suo genio consiste proprio nella capacità di non farsi divorare dalla realtà, di governarla attraverso regie narrative di confezione impeccabile, esplosive come piccole bombe avvolte in nastri di seta».

Mi piace trovare qui un riferimento al lavoro di Ines Fontenla in cui i luoghi, l’architettura, la geopolitica passano di volta in volta da una dimensione fisica a una dimensione esistenziale, facendosi comunque geografia dell’anima.

 

  1. Con questo termine si vuole indicare anche da parte dei geologi un ipotetico gigantesco continente sprofondato migliaia di anni fa nelle acque dell’Oceano Atlantico. Notizie assai dettagliate a questo proposito sono in due dialoghi di Platone, Timeo e Crizia. Platone introduce così Atlantide nel Timeo: « Innanzi a quella foce stretta che si chiama colonne d’Ercole, c’era un’isola. E quest’isola era più grande della Libia e dell’Asia insieme, e da essa si poteva passare ad altre isole e da queste alla terraferma di fronte. […] In tempi posteriori […], essendo succeduti terremoti e cataclismi straordinari, nel volgere di un giorno e di una brutta notte […] tutto in massa si sprofondò sotto terra, e l’isola Atlantide similmente ingoiata dal mare scomparve».
  2. Nella “House of Solomon” i bensalemiti si dedicano ad esperimenti scientifici realizzati con il metodo di Bacon per controllare la natura e applicare la conoscenza per migliorare la società.
  3. Hart, Il danno, Feltrinelli, Milano, 1995; p.69.
  4. La mostra era curata da chi scrive presso lo spazio Biffi Arte.
  5. Dal prologo di I fuochi dell’autunno di Irène Némirovsky, Newton Compton, Milano, 2013.

 

 


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